Il vestito non fa il monaco, questa regola vale anche quando siamo sul posto di lavoro?
Partiamo da un principio che vale per tutti: le persone dovrebbero venire giudicate unicamente per la loro capacità lavorativa, per l’apporto che danno all’azienda e non invece in base al modo di vestire.
Sull’argomento vanno però fatti molti “distinguo”.
Innanzitutto va considerato l’abbigliamento in quei luoghi di lavoro dove è obbligatorio indossare indumenti specifici, classica è l’officina metalmeccanica dove i dipendenti indossano la famosa tuta, o si pensi agli ospedali ed alla necessità dell’uso dei camici.
In merito vanno sottolineati tre aspetti importanti che emergono dalla giurisprudenza:
- Il primo è che l’abbigliamento tecnico deve essere comprato dal datore, non può essere ciò un costo per il lavoratore.
- Il secondo è che tale tipologia di abbigliamento deve essere lavata sempre a spese dell’azienda.
- Il terzo aspetto è che il tempo per indossare i vestiti richiesti deve essere considerato già orario di lavoro se in quei minuti viene ravvisata già l’etero direzionalità (cioè il controllo del datore), negli altri casi si considera che l’orario di lavoro decorra da quando il lavoratore ha già indossato l’abbigliamento richiesto.
Poi c’è il caso della “necessarietà”, quando cioè il lavoratore abbia contatti con il pubblico, sottintendendo quindi che il lavoratore in quel frangente sia il “biglietto da visita”, verso i clienti.
Poiché in questi casi la “divisa” diventa immagine aziendale, la diligenza nello svolgimento della prestazione lavorativa in contatto con il pubblico, potrebbe implicare una cura della persona specifica per il dipendente, sia per il proprio aspetto fisico sia per l’abbigliamento utilizzato.
Possiamo ipotizzare due casistiche, la prima ravvisabile è quando il datore di lavoro per finalità di Brand faccia indossare capi di abbigliamento propri: in questo caso sarà totalmente a spese dell’azienda vestire i propri dipendenti (i negozi di vestiti di grandi marche ne sono l’esempio più tipico).
Vi è però anche il caso quando il datore di lavoro non richieda di indossare capi firmati specificatamente, ma pretenda comunque un decoro, una pulizia ed una immagine esteriore, consona all’ambiente dedicato alla clientela.
In questo caso, rientra nella diligenza del lavoratore presentarsi al lavoro evitando capi di abbigliamento, acconciature o altro, che siano eccessivi, si tratta cioè di una diligenza del buon padre di famiglia quella di presentarsi con decenza, evitando stravaganze incompatibili con un sereno svolgimento dell’attività in azienda.
Il limite però in quest’ultima ipotesi è molto sottile, infatti il datore di lavoro non può spingersi fino ad obbligare il lavoratore a comprarsi capi di vestiario specifici (per forma, colore o tipologia) o per esempio a vietare tatoo (al massimo potrà chiedere di non esporli) od a vietare di mettere orecchini.
Se l’abbigliamento o l’immagine richiesta al lavoratore non nasca da una necessità di sicurezza sul luogo di lavoro, o da un brand specifico a spese del datore di lavoro, quello che è consigliabile è prevedere una pattuizione aziendale (non necessariamente ma consigliabile per iscritto), di prassi aziendali a cui devono attenersi i lavoratori, in funzione di ragionevoli necessità aziendali e nel rispetto della libertà personale del lavoratore di autodeterminazione della propria immagine.
L’argomento è stato qui trattato volutamente in modo sintetico e semplificato ad uso esclusivo dei clienti dello studio.