“Svolgi il tuo lavoro con tutto il cuore e avrai successo, c'è così poca concorrenza. (Elbert Green Hubbard)
Nel 1993, complice anche una proiezione futuristica non rosea delle pensioni pagate dallo stato, venne prevista la possibilità di costituire dei fondi di previdenza complementare volontari; con il D.Lgs. 252/2005, dodici anni dopo, viene completato il percorso normativo.
Da tale data, i Contratti Collettivi, banche, assicurazioni, possono prevedere e, di fatto, quasi tutti oramai la prevedono, la costituzione di Fondi privati che, su base volontaria ed opzionale, gestiscono ed erogano servizi pensionistici paralleli ed aggiuntivi a quelli dell’Inps.
Il finanziamento della previdenza complementare principalmente è dato dalla destinazione del proprio Trattamento di fine Rapporto TFR al fondo, per poi vederselo restituire, al termine della propria carriera lavorativa, sotto forma di assegno mensile di pensione integrativa.
La norma ha anche previsto un sistema (ridicolo) di “assenso silenzio”, cioè il lavoratore che, decorsi sei mesi dalla data di assunzione, non ha dato indicazioni di cosa voglia fare con il proprio TFR, automaticamente se lo vedrà destinato al fondo di categoria.
I fondi si distinguono in fondi chiusi (o negoziali) e fondi aperti, Nel primo caso si tratta di Fondi costituiti sindacalmente cui possono aderire i lavoratori di uno specifico settore, comparto, impresa o territorio, mentre i fondi aperti, istituiti principalmente da banche, assicurazioni, società di gestione del risparmio o di intermediazione immobiliare, sono liberi ed aperti a tutti.
Lasciare il TFR in azienda o versarlo ad un fondo di previdenza complementare?
Non esiste una risposta corretta ed una sbagliata.
Chi opta per lasciare il TFR all’interno dell’azienda, di fatto compartecipa a finanziare l’azienda stessa, ha la certezza che l’importo è garantito dallo stato in caso di fallimento, può ricevere anticipi anche per motivi estranei da quelli previsti dal codice civile ed al termine del rapporto si vede pagare il TFR subito e per intero.
Chi invece opta per destinare il TFR ad un fondo di previdenza complementare, ha un vantaggio fiscale (dato per incentivare questa forma pensionistica) consistente nel fatto che fino a 5.164,57€ annui i soldi destinati al fondo sono dedotti dal reddito (riducendo quindi la pressione fiscale). L’erogazione avviene poi una volta andati in pensione, sotto forma di assegni mensili.
È bene precisare che i fondi di previdenza complementare hanno diversi rischi intrinsechi, innanzitutto il costo di gestione del fondo stesso (quelli aperti sono anche più cari di quelli negoziali), il capitale poi non viene garantito, in quanto dipende dall’andamento dei mercati finanziari e può subire perdite anche dell’80%.
Ma probabilmente il fattore più negativo è che una volta destinato il TFR ad un fondo NON si torna più indietro fino alla pensione!
Da valutare anche l’importanza dell’età del lavoratore: un ragazzo giovane che destina il TFR al fondo, nel tempo verserà molto più capitale ai fini pensionistici rispetto ad un dipendente che decide di destinare il TFR al fondo all’età di 50 anni.
L’argomento è stato qui trattato volutamente in modo sintetico e semplificato ad uso esclusivo dei clienti dello studio, di conseguenza, non costituisce un parere giuridico né può in alcun modo considerarsi come sostitutivo di una consulenza specifica.